APE Sociale: proroga al 31 dicembre 2025 e nuove interpretazioni giurisprudenziali

Con il Messaggio INPS n. 502/2025, è stata ufficializzata la proroga dell’APE Sociale fino al 31 dicembre 2025. Introdotta dalla Legge di Bilancio 2017 (L. 232/2016), questa misura consente ai lavoratori in condizioni di particolare disagio di anticipare l’uscita dal mercato del lavoro prima del raggiungimento dell’età pensionabile. Tra i tre strumenti originariamente previsti (APE volontario, APE aziendale e APE Sociale), solo quest’ultimo è stato oggetto di reiterate proroghe ed è tuttora operativo.

L’APE Sociale si concretizza in un’indennità a carico dello Stato che accompagna il lavoratore fino al conseguimento della pensione di vecchiaia. La proroga per il 2025 conferma i criteri di accesso già fissati dalla Circolare INPS n. 34/2018. Tuttavia, la recente giurisprudenza, in particolare la sentenza della Corte di Cassazione n. 24950/2024 e quella della Corte d’Appello di Milano n. 883/2024, ha offerto nuove chiavi interpretative, semplificando in alcuni casi le modalità di accesso alla prestazione, specie per i soggetti invalidi e in relazione all’interazione tra APE Sociale e NASpI.

Nonostante questi sviluppi, va sottolineato come, al momento, l’INPS non abbia ancora recepito formalmente tali orientamenti in mancanza di una norma di interpretazione autentica.
Requisiti per l’accesso all’APE Sociale nel 2025
Per ottenere l’APE Sociale nel 2025, i lavoratori devono rispettare determinati requisiti relativi a età, contribuzione e profilo di tutela. In particolare:
Età minima: 63 anni e 5 mesi compiuti al momento della domanda.
Anzianità contributiva:
30 anni di contributi per disoccupati (a condizione di avere terminato la NASpI da almeno 3 mesi), care-givers e invalidi civili con percentuale pari o superiore al 74%.
36 anni di contributi per i lavoratori addetti a mansioni gravose, ridotti a 32 anni per edili e ceramisti.
Lavoratrici madri: riduzione di 12 mesi per ogni figlio (massimo 2 anni).
Inoltre, i richiedenti devono essere residenti in Italia, non titolari di pensione diretta e appartenere a uno dei quattro profili di tutela previsti:
1. Disoccupati
Il lavoratore deve trovarsi in stato di disoccupazione involontaria a seguito di:
– risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di conciliazione ex art. 7 L. 604/1966.
– licenziamento (anche collettivo)
– dimissioni per giusta causa
2. Lavori gravosi
I lavoratori che svolgono attività usuranti, come definite nell’Allegato n. 3 della L. 234/2021, possono accedere all’APE Sociale se hanno svolto tali attività:
– per almeno 6 anni negli ultimi 7 anni, oppure
– per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni.
Per edili e ceramisti il requisito contributivo si abbassa a 32 anni.
3. Invalidi civili
Accesso consentito ai lavoratori con invalidità civile certificata pari o superiore al 74%, a condizione di soddisfare anche i requisiti di contribuzione ed età.
4. Caregivers
Accesso per chi assiste da almeno 6 mesi un familiare convivente con grave disabilità ai sensi della L. 104/1992. Sono inclusi anche i soggetti che assistono parenti o affini di secondo grado in determinate condizioni.
APE Sociale e contratti a termine: il chiarimento della Cassazione (sentenza n. 30258/2024)
Un punto cruciale, per chi accede come disoccupato, è stato definitivamente chiarito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30258/2024. Il caso riguardava un lavoratore licenziato da un rapporto a tempo indeterminato che aveva successivamente svolto vari contratti a termine brevi, senza superare la soglia dei sei mesi.

Inizialmente, il Tribunale di primo grado aveva escluso il diritto all’APE Sociale, seguendo la prassi INPS che riteneva ostative le rioccupazioni brevi. La Corte d’Appello di Firenze aveva invece ribaltato la decisione, riconoscendo che:

  • la disoccupazione derivava dal primo licenziamento,
  • i contratti brevi successivi non annullavano lo stato di disoccupazione ai fini della NASpI.

La Cassazione ha confermato tale impostazione: i 18 mesi di occupazione nei 36 mesi devono essere riferiti all’ultimo contratto rilevante, purché di durata superiore a sei mesi. I contratti a termine successivi di durata inferiore non inficiano il diritto alla prestazione.

Questa interpretazione potrebbe incidere significativamente sulla prassi applicativa, superando la linea più restrittiva sinora seguita dall’INPS.

Valeria Calafiore
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